Rilancio un concetto espresso da Mario Cucinella in una recente intervista:
Lo smart working è interessante, ma in realtà in un lavoro come il mio si può fare parzialmente perché parliamo di un lavoro di relazione, di scambio costante e quotidiano attraverso mille forme: dal prendere insieme un caffè alla discussione su un progetto. Questa parte di socialità con lo smart working non c’è. Anche io ho vissuto fino a poco fa la pressione in studio e la frenesia che ne deriva, ma in fondo è anche vero che è quel sistema frenetico a generare creatività, idee e proposte innovative. Quindi questa modalità di lavoro può andare avanti per un po’, ma non a lungo. La progettazione ha bisogno di dialogo, del disegno “fisico” e della sua interpretazione.
Sono pienamente d’accordo!
È vero che in questo periodo il “lavoro agile” sta forzatamente disegnando una sua dimensione con una accelerazione che in tempi passati era inimmaginabile.
Ed è vero anche che la diminuzione del traffico e dell’inquinamento sono tra gli effetti più tangibili di questo rapporto causa-effetto.
Ma è anche vero che per quelli, come me, che amano la propria professione al punto da non fare distinzione tra vita privata e attività lavorativa, la mancanza di socialità, di relazione, di scambio tradizionalmente intesi diventa un freno di enorme peso.
Io amo andare in studio, amo confrontarmi continuamente con i colleghi, amo quei briefing dove la matita sta al centro del tavolo, sui disegni, e chi la prende ha diritto di parola, come se prendesse un microfono.
Lo smart working credo dunque che debba, giustamente, porre degli interrogativi sull’organizzazione del lavoro di studio.
Ma, come sempre, la ricerca di un equilibrio e l’uso corretto delle risorse dovrebbe essere alla base di qualsiasi cambiamento o rivoluzione sociale.